di Prof. Luigi M. Brunoi (1996)

Intrisa di furori neoespressionisti e di “urla” graffite dell’inferno metropolitano, la pittura di Mauro Bellucci, sotto la superficie della violenza gestuale, denuncia una vocazione prepotente e mai elusa di un “ricomporre” linee e spazi, per un ricondursi dalla frammentazione caotica alla necessaria utopia di una idealità, una unità primitiva che è fiducia, nonostante tutto, per valori estetici e umani fondamentali.

Nel groviglio dei richiami contrastanti, nelle invettive dei colori primari, l’artista non smarrisce mai il filo che nella notturna città dell’assurdo riporta a una “nuce” essenziale, un faro mai spento di ottimismo nell’umano, nostalgico richiamo del mitico “uovo” quattrocentesco, dove tutto era limpido e necessario.

Il cammino di Bellucci, fragile ma nello stesso tempo potente e tenace è il cammino di chi non rinuncia comunque a porsi un tracciato, un’etica che è richiamo e obbligo per un mondo da ricostruire.

L’inserimento tridimensionale di tele sul dipinto sono eco ma misurata, ricomposta nell’essenziale, dell’impeto pittorico sottostante, frammenti che affiorano su un fiume in piena, zattere dove si riafferma la speranza di un viaggio possibile; sono finestre che scrutano fino in fondo, finestre che guardano fuori, all’aperto, solcate dal buio e dalla luce di una lunga notte da attraversare, dove antichi poeti “maledetti” (Rimbaud) gridano bestemmie per cercare una risposta.